martedì 18 settembre 2012

Cinemacorsaro profetico: Leone d'oro a Kim Ki-duk

La 69° Edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ha decretato il suo vincitore, il regista koreano Kim Ki-Duk che con Pietà ha convinto la giuria, dividendo la critica. Cinemacorsaro subito dopo la proiezione al Pala Biennale aveva parlato di "Opera completa ed esteticamente bellissima...", evidentemente non ci eravamo sbagliati. Abbiamo tifato immediatamente per Kim Ki-Duk, perchè a nostro avviso é riuscito a parlare di temi universali, quali l'amore, l'odio e la pietà, pertendo da un punto di vista particolare, in una sorte di sineddoche per immagini. Speravamo in questo premio, ma dubitavamo che una giuria che si voleva allontanare dai dettami di un filone cinematografico asiatico, tanto caro al Festival targato Muller, avvese questo coraggio. Bene quindi l'assegnazione del Leone d'Oro (siamo stati i primi a stringere la mano e a complimentarci con il regista koreano in sala stampa...), peccato per gli italiani, ma va detto che le opere di Bellocchio ("La bella addormentata"), Ciprì  (" E' stato il figlio") e la Comencini ("Un giorno speciale") non hanno evidenziato quella forza espressiva che si è invece palesata in opere come Pietà o The Master. Belle sorpese invece il cinema italiano le ha riservate nella sezione Orizzonti, fra tutte "L'intervallo" di Leonardo di Costanzo e "Gli equilibristi" di Ivano De matteo. Sempre in questa sezione ci ha colpito molto "Low Tied" di Roberto Minervini con il suo sguardo sullo sguardo dei protagonisti. In attesa di Venezia 70, di seguito tutte le recenzioni di Cinemacorsaro dal Lido!

mercoledì 12 settembre 2012

"Di me cosa ne sai": analisi di una crisi


Al termine della visione del docu-drama “Di me cosa ne sai” di Valerio Jalongo, sulla crisi del cinema italiano, si ha la sensazione di essere stati derubati di qualcosa d’importante, come di non essere stati avvertiti della perdita di una cosa che ci stava molto a cuore. Eppure non si può dire che sia stato un declino rapido, ma si è strutturato nel tempo. Come nel postulato Pasoliniano s’intuiscono i “colpevoli”, ma non si hanno le prove. Si può, però, almeno cercare di capire meglio ciò che è successo analizzando le fonti che abbiamo a disposizione.
Bisogna andare indietro con gli anni, fino al luglio 1945, quando accade un fatto molto importante che si può considerare la presa di possesso simbolica, da parte dei produttori americani, del mercato europeo: il viaggio, durato circa un mese, di un gruppo di rappresentanti di tutte le maggiori case americane (Paramount, Columbia, Universal, Twentieth Century Fox, Warner Bros), in vari paesi europei.
In Italia i rappresentanti del cinema americano vengono ricevuti con tutti gli onori, come se fossero veri e propri capi di governo e ripetono la necessità di abolire, in un clima di riconquistate libertà, le leggi protezionistiche del fascismo.
É l’incontro con Pio XII che segna però il vero punto a favore dell’industria americana. L’incontro suggella un’alleanza in cui il Papa consegna ai produttori americani e mette a disposizione il suo “modesto” patrimonio di sale e la sua più autorevole voce per orientare il giudizio dei fedeli.
Il 20 settembre il consiglio dei ministri approva il decreto luogotenenziale, che non pone limiti all’importazione e abroga quasi interamente la legge fascista: le compagnie americane si possono dire ampiamente soddisfatte.
La strada è aperta. Il favore del pubblico, la sua disponibilità a immergersi nuovamente nelle immagini del cinema americano sono ottenuti sommando una serie di fattori e forze, che cooperano tra loro strettamente: dai distributori agli esercenti, dalla Chiesa alla stampa di categoria, alle forze politiche. Per necessità il governo italiano ha dovuto fare del mercato cinematografico un terreno di libera caccia, in cui, con la copertura del liberismo economico, si costituisce, di fatto, una colonizzazione e un rapporto di dipendenza quasi totale.
Si nota anche, già all’indomani dell’approvazione del decreto luogotenenziale, come si siano creati scontri precisi sul piano politico. Da una parte la sinistra, che sostiene come il cinema italiano non possa vivere senza sussidi governativi, paradossalmente viene a trovarsi allineata con un’idea di protezione economica già concessa al cinema dal fascismo e che continua a riproporre anche in tempi più vicini a noi. Dall’altra parte, a sostegno di una libera fluttuazione del mercato, sono i rappresentanti dei democristiani, guidati da Valentino Brosio, presidente di Cinecittà che dimostra di preferire che il cinema vada in mano degli americani piuttosto che delle forze di sinistra per venire usato come strumento di propaganda.
Per il momento però nessuna forza politica, comunisti compresi, si sforza di denunciare la circolazione dei film americani come strumento di propaganda e mezzo di controllo ideologico della popolazione italiana.
La “cinefagia” aggressiva dell’industria di Hollywood può trovare buoni motivi per stringere, a seconda delle circostanze, vari patti di alleanza separati, come vedremo, farà di volta in volta.
Ricordare l’aneddoto del viaggio in Italia dei rappresentanti di tutte la maggiori case di produzione americane e poi vedere all’inizio del documentario di Jalongo i multisala con tutti i loro nomi splendenti fa pensare che un collegamento e anche poco casuale ci deve pur essere.
Nel febbraio 1946 venne dichiarata libera la produzione e distribuzione dei film stranieri e fu abolito ogni dazio.
Poco dopo, nel dicembre del 1949, fu varata la legge Andreotti sul cinema, ispirata nei meccanismi di salvaguardia del cinema nazionale, a quella del 1938 (legge Alfieri).
La tassa sul doppiaggio divenne “prestito obbligatorio in cambio di buoni”, mentre il divieto di esportazione di valuta costrinse la MGM, nel 1951, a reinvestire in Italia parte dei suoi incassi: con essi girò Quo Vadis? a Cinecittà.
La politica andreottiana risollevò nuovamente il fatturato dell'industria nostrana incrementando esponenzialmente le produzioni annue, 27 furono i film prodotti nel travagliatissimo 1945 di Roma città aperta, 170 quelli prodotti e distribuiti nel 1953.
Tale legge imponeva che un film per essere italiano deve avere almeno il 50% di personale italiano e consentiva alle coproduzioni di usufruire degli incentivi statali e ciò aprì le porte dell’Italia e di Cinecittà a inglesi, tedeschi, spagnoli e, soprattutto, americani interessati a sfruttare le locations italiane.
I successivi venti anni furono gli anni d’oro del cinema italiano che giunse a concorrere alla pari con il colosso hollywoodiano.
Nel 1972 però la legge Andreotti venne soppiantata dalla nuova normativa promossa da un socialista, tale Corona in base alla quale avrebbero potuto accedere ai finanziamenti pubblici solo le pellicole ad intera produzione italiana.
Inizia il declino, impedendo di girare in inglese, si toglie il respiro internazionale alle opere, e i capitali affluiti in Italia grazie alle coproduzioni con cui il cinema italiano aveva potuto prosperare ed essere ammirato nel mondo, vengono a mancare.
A metà degli anni Settanta, nell’arco di appena tre anni, i tre maggiori produttori italiani (De Laurentis, Ponti, Grimaldi) lasceranno il paese per approdare ai più prosperosi lidi statunitensi.
De Laurentiis ipotizza che la legge Corona -che assestò il primo pesante colpo all’industria cinematografica italiana- fu concepita per venire incontro ai desideri degli americani.
Si tratta di dichiarazioni provenienti da una fonte che ben conosce non solo gli ambienti dei produttori e dei distributori italiani ma anche il potente sistema delle major hollywoodiane.
Dal punto di vista della distribuzione e della produzione cinematografica i finanziamenti cominciano a scarseggiare, con il conseguente calo dei fatturati.
Sarà forse un caso, ma gli anni della legge Corona sul cinema e l’esodo dei maggiori produttori cinematografici italiani coincidono con la normativa che cominciò a spezzare il monopolio televisivo della RAI con la concessione alle piccole emittenti televisive di trasmettere localmente.
Fra i soggetti che si precipitarono immediatamente nell’avventuroso mondo delle emittenti commerciali, troviamo Tele Malta degli editori Rizzoli, gli stessi che assecondarono l’assalto piduista al Corriere della Sera con il concorso del banchiere Roberto Calvi e Tele Torino su cui si stagliava l’ombra dell’aristocratico piduista Edgardo Sogno, con intensi contatti americani ed inglesi.
Strane coincidenze……
In quegli anni le prime emittenti televisive locali avevano budget e palinsesti modesti ma determinate forze politiche ed economiche compresero più e meglio delle sinistre le potenzialità del mezzo dal punto di vista culturale e furono altrettanto leste a cogliere il senso della cultura “popolare” o “bassa”.
La sinistra egemonizzata dal PCI, troppo occupata nei suoi distinguo fra cultura “alta” e subcultura, si mosse con estremo ritardo, mentre le nuove destre si giovarono delle possibilità offerte dai nuovi media, oltre che della centralità dei meccanismi pubblicitari. Quanto vi sia poco di casuale in queste tendenze è dimostrato proprio da quell’ormai celebre e citatissimo Piano di Rinascita Democratica della loggia P2 controllata dall’ineffabile Venerabile Gelli al centro di mille trame e mille misteri italiani. Accanto all’obiettivo di condizionare pesantemente l’informazione della carta stampata, Gelli & c. si proponevano di “dissolvere” la RAI TV in nome della libertà di antenna.
Alla luce di tali intenti non stupisce l’interesse nei confronti della televisione privata e commerciale da parte degli iscritti alla P2 compreso il Cavalier Silvio Berlusconi.
Per converso fra gli intellettuali di “sinistra” Pasolini fu tra i pochissimi a capire la portata della cultura intesa nella sua interezza, senza trascurare gli aspetti sub culturali fino a quelli rientranti nell’ambito della deculturazione.
Inizia così l’emorragia di spettatori dalle sale cinematografiche e in pochi anni la produzione cinematografica cala da 250 a 90 film.
Fra tante avventure catodiche di breve respiro, solo quella del giovane Cavalier Silvio Berlusconi, resiste: divenuto presto padrone incontrastato delle concessioni pubblicitarie, si concentra anche sulla programmazione cinematografica in televisione facendo incetta di pacchetti di film come quelli del magazzino della Titanus di Goffredo Lombardi.

"Di me cosa ne sai" : analisi di una crisi 2° Parte

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..Fino ad allora la televisione nazionale non aveva dato molto spazio alla trasmissione di pellicole cinematografiche, ma da un giorno all’altro gli schermi vengono letteralmente invasi da film anche piuttosto recenti. Sarebbe inutile ribadire quanto ciò abbia contribuito alla diserzione degli spettatori dai cinema. Nel frattempo, in un contesto da selvaggio west mediatico, il Cavaliere diventa proprietario di ben tre reti televisive (Canale 5, Italia Uno e Retequattro) imponendo il suo monopolio sulla TV commerciale edificando un impero dell’industria mediatica, dello spettacolo e dell’intrattenimento.
Nei rampanti anni Ottanta diviene socio dei Cecchi Gori, i maggiori produttori e distributori cinematografici italiani, nella Penta Cinematografica e con l’acquisto della storica Medusa ottiene il quasi monopolio dell’industria cinematografica condividendolo con la RAI.
Il duopolio televisivo ormai sancito dalla famigerata legge del ministro repubblicano Mammì ma concertata soprattutto da Craxi ed Andreotti, si riflette sul cinema con le prevedibili conseguenze. Alla costosa realizzazione di film per il grande schermo si preferiscono le fiction televisive. Nel frattempo i format e i palinsesti della RAI TV cominciano ad assomigliare sempre più a quelli Mediaset.
Nell’arco di pochi anni la legge Corona, le fughe americane dei De Laurentiis, dei Ponti, dei Grimaldi, la progressiva occupazione dell’etere di canali patrocinati da determinati settori economici e politici farebbero pensare ad un intervento di quelle lobbies che molto investono sulla macchina spettacolare hollywoodiana, probabilmente e prevalentemente italoamericane ed ebraiche.
L’immaginario si divide fra il cinema spettacolare americano e la televisione berlusconiana becera e provinciale, che ha invaso le case degli italiani. All’inesorabile calo di spettatori nei cinema si accompagna la progressiva affermazione delle pellicole statunitensi a scapito di quelle italiane.
Basterebbe dare una scorsa alle classifiche degli incassi delle stagioni cinematografiche di venti, trenta e quarant’anni fa per prendere atto di questa tendenza che pare inarrestabile.
In passato le preferenze del pubblico italiano si sono indirizzate sui prodotti della nostra cinematografia piuttosto che sulla concorrenza hollywoodiana ma oggi solo le pellicole dei vari De Sica e Boldi sono in grado di reggere all’ondata del cinema mainstream americano. Intanto chiudono le piccole case cinematografiche del nostro paese e si moltiplicano gli studi televisivi.
La suddetta operazione de-culturale ha una portata globale nel suo tentativo di annullare la concorrenza di tutte le cinematografie straniere. In compenso la macchina Hollywoodiana realizza i film secondo una logica puramente industriale e standardizzata vendendoli al pari di una qualsiasi merce.
Siamo alla mercificazione e alla reificazione del processo artistico e creativo quello che Benjamin chiamava la perdita dell”aura” dell’opera d’arte.
A conferma di ciò, basti pensare che nel 1996 venne fatto uscire di nascosto un documento dell’Ambasciata Americana di Parigi dove l’amministrazione americana chiariva la sua strategia, chiedendo ad ogni rappresentante americano di non menzionare mai la parola “cultura” nei negoziati, evidenziando così che l’America voleva che tutti pensassero ai film come ad una merce simile ad ogni altra merce.
Per attuare una diffusione capillare nascono sempre più spesso i multisala inseriti in centri commerciali sempre più grandi, dove vige la regola del tutto e subito; film e prodotti di ogni genere fanno bella mostra di se mentre le sale cinematografiche dei centri storici inesorabilmente chiudono i battenti.
Logicamente questi templi dell’intrattenimento appartengono perlopiù alle major hollywoodiane a parte poche eccezioni come casualmente la casa di distribuzione e produzione cinematografica berlusconiana, la già citata Medusa. In gioco c’è il controllo della cultura e dell’immaginario e, accanto ad essa, il monopolio dei mercati dell’audiovisivo.
Ormai lontana dal suo glorioso passato di celluloide, l’Italia mostra invece tutta la sua fragilità non potendo andare oltre una legge che ancora una volta finisce per subordinare il sostegno e la rinascita del cinema ai consueti criteri clientelari.
Bisogna evidenziare che gli addetti ai lavori – registi, produttori, sceneggiatori, attori, a volte hanno qualche responsabilità.
 Proprio il regista Paolo Sorrentino riconosce una certa mancanza di coraggio negli autori italiani come se non fossero in grado di raccontare le storie di questo paese. Ma anche la classe politica ha le sue colpe, perché il film è un’esperienza che chiede una partecipazione attiva da parte dello spettatore e per far questo ci vuole una vera e propria educazione all’immagine.
In Italia purtroppo, il ministero della P.I. non contempla nella scuola media superiore l’insegnamento di Storia del Cinema, per questo può succedere che un’adolescente alla domanda “Sai chi era Federico Fellini?” Risponda: «ci andavo a scuola» (intendendo la Scuola Media di Roma intitolata al maestro romagnolo).
Oltre a questo, quel nome che ha fatto grande il cinema italiano nel mondo, proprio non gli ricordava nulla…….